La crisi climatica sta mettendo in ginocchio le popolazioni indigene, rurali e di discendenza africana dall’Alaska all’Amazzonia.
Le comunità, affiancate dall’organizzazione EarthRights, si sono rivolte alla Corte interamericana dei diritti umani (Iachr), un organo giudiziario autonomo dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oas). Terminate le udienze già in corso, la Corte potrebbe emettere un parere consultivo per obbligare Stati Uniti, Colombia, Brasile, Ecuador, Perù, Guatemala e Honduras ad affrontare l’emergenza climatica e a difendere i diritti umani.
Gli ultimi ad essere ascoltati dall’Iachr a Manaus, in Brasile, sono stati in queste ore i leader indigeni e tribali di Louisiana, Alaska e Colombia. Le ripercussioni del cambiamento climatico sono terribili. Il paradosso è che le comunità, pur contribuendo in maniera minima alle emissioni che causano il cambiamento climatico, sono quelle che maggiormente risentono delle conseguenze.
Nel sud-est della Louisiana, i territori indigeni rischiano di perdere le loro terre a causa della distruzione delle zone umide da parte dell’industria del petrolio e del gas e della costruzione di argini. Il tutto, combinato con gli impatti dei cambiamenti climatici. È stato stimato che ogni cento minuti si perde l’equivalente di un campo da calcio terrestre.
Nel villaggio indiano di Grand Bayou, sede della tribù Atakapa-Ishak Chawasha, la terra sta scomparendo. Le minacce sono aggravate da un progetto di protezione della costa che “sacrificherà” il villaggio per edificare terreni e dalla costruzione di uno dei più grandi impianti di gas naturale liquefatto. “Il governo ignora le nostre preoccupazioni. Ci hanno offerto l’acquisizione delle nostre terre. – ha affermato Rosina Philippe, anziana del consiglio della tribù – Stanno trattando il nostro mondo come una proprietà immobiliare”.
Nell’Alaska occidentale il riscaldamento dell’Artico ha portato allo scioglimento del permafrost, mettendo in pericolo le infrastrutture vitali e i mezzi di sussistenza. Qui la temperatura è aumentata di 3,5 gradi dall’inizio del ventesimo secolo. I nativi Yup’ik sanno da un decennio che le loro case nel villaggio di Nunapitchuk non sono più sicure. Gli Yup’ik erano un popolo nomade da tempo immemorabile, fino a quando il governo degli Stati Uniti costruì Nunapitchuk all’inizio del 1900. Il governo tribale ha approvato una risoluzione per trasferirsi su un terreno più elevato, ma il governo si è rifiutato di collaborare.
Anche Everildys Córdoba Borja, rappresentante del consiglio comunitario delle comunità nere (Cocomasur) in Colombia, si è rivolta alla Corte, descrivendo il degrado ambientale e gli sconvolgimenti sociali causati dal cambiamento climatico nelle comunità indigene e tribali nelle regioni dell’America Latina. “Le nostre comunità sono state vittime di molteplici violenze e ora siamo vittime delle conseguenze dell’emergenza climatica. – ha dichiarato Everildys – Le continue inondazioni, gli sbalzi delle temperature che colpiscono i nostri raccolti e gli sfollamenti forzati dovuti all’impossibilità di vivere nei nostri territori richiedono l’adozione di misure concrete che rispondano a questa crisi”.
In Amazzonia poi esiste una rete di 7mila territori indigeni e aree protette che ricoprono circa il 50% della foresta. Il 18% della foresta amazzonica è stato deforestato, e un altro 17% è degradato, principalmente a causa del disboscamento, dei combustibili fossili e dell’agroindustria, causando un grave impatto ambientale.
Le alte temperature incidono sulle comunità del Sud America colpite dagli incendi boschivi, dal prosciugamento di importanti corpi idrici come il Lago Titicaca in Perù e Bolivia. Nonché lo scioglimento delle cime innevate della Sierra Nevada del Cocuy in Colombia. La migrazione di specie autoctone causa il deterioramento degli ecosistemi. E persino la morte e il rischio di estensione in casi come i delfini d’acqua dolce dell’Amazzonia e le tartarughe di Caná.
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